Gli ulivi secolari del Salento: un patrimonio da preservare

Gli ulivi secolari del Salento: un patrimonio da preservare

Staff Corte del Salento Staff Corte del Salento 28 Agosto 2023 Salento & Dintorni

Nel Salento l’agroecosistema olivicolo esiste da più di 4000 anni, dall’età del Bronzo, e rappresenta un patrimonio locale di inestimabile valore per paesaggio, commercio e tradizioni sociali. Nel nostro XXI secolo nel territorio di Lecce, Brindisi e Taranto sono presenti più di 11 milioni di alberi di olivo, di cui il 30% circa ultracentenari.

In molte aree del bacino Mediterraneo l’olivo è coltivato a scopi produttivi, con spaziature regolari tra gli alberi e potature regolari, nonché uso di fertilizzanti e fitofarmaci.

Ma è nella penisola salentina che, per la coltivazione tradizionale non organizzata che ancora persiste e la presenza di molti ulivi secolari (alcuni addirittura millenari!), dai tronchi contorti e dalle chiome irregolari, l’ulivo può essere considerato un elemento naturale del paesaggio.

Un esemplare vegetale importante per l’agroecosistema, che possiede un intrinseco valore storico e non si può considerare solo una risorsa economica tipica regionale.

La tradizione e la storia dell’olivicoltura nel Salento

Dopo l’esordio nell’Età del Bronzo, la coltivazione dell’ulivo, che proseguì nell’Età del Ferro, venne diffusa dai Fenici, dai Greci e dai Romani in molte zone del bacino del Mediterraneo. Soprattutto l’Impero Romano favorì la coltivazione e la produzione di olio in Puglia, che divenne la principale fonte di approvvigionamento per l’intero Impero.

Nel corso dell’VIII secolo i monaci in fuga dall’Impero Bizantino si dedicarono allo sviluppo delle tecniche per il miglioramento della qualità, mentre un’ulteriore diffusione in termini di quantità si ebbe durante il Medioevo, sotto la dominazione Normanna, quella degli Svevi e degli Angioini, degli Aragonesi, in cui si praticava l’innesto degli ulivi selvatici con cultivar locali e si cominciò a circondare gli uliveti con i caratteristici muretti a secco che ancor oggi sono visibili tra gli ulivi salentini.

Sempre a partire dall’VIII secolo nascono i frantoi detti “ipogei“, scavati nella roccia tufacea, e viene prodotto in gran quantità anche l’olio non commestibile ma destinato all’illuminazione, che già dal XVI secolo veniva esportato e apprezzato per il suo pregio, in Europa ma anche in Nord America e in Russia.

Alla fine del XVIII secolo, precisamente nel 1787, i Borboni danno ulteriore incoraggiamento alla coltivazione dell’ulivo, abolendo per 40 anni qualsiasi tassa avesse a che fare con l’impianto di nuovi uliveti. A tutt’oggi varie iniziative regionali, nazionali ed europee sostengono gli agricoltori salentini nel mantenimento degli uliveti in buono stato vegetativo, mentre le coltivazioni più diffuse sono ancora quelle dell’antica Roma: l’Ogliarola salentina e la Cellina di Nardò.

I problemi dell’antichità e i piani per contrastare le infestazioni recenti

Se studi geologici e testimonianze scritte consentono di risalire ai problemi del lontano passato: siccità e malattie che attaccavano gli ulivi, proprio gli ulivi secolari del Salento raccontano la loro storia più recente attraverso i segni che il tempo ha lasciato su tronchi, rami e fogliame.

Gli studiosi hanno scoperto così che l’integrità e la salute dell’agrosistema venne messa in pericolo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX, uno dei possibili motivi per i quali i Borboni incentivarono l’impianto di nuovi oliveti. A fare i conti con la siccità e la conseguente bruciatura dell’apparato fogliare furono soprattutto gli esemplari della parte occidentale del Salento, che probabilmente furono anche attaccati da venti caldi, o salmastri, dal proliferare di agenti patogeni fungini. La maggior parte degli ulivi fu comunque in grado di riprendersi dal periodo difficile.

In tempi recenti, la minaccia più grave è quella della Xylella: questo parassita provoca bruciatura delle foglie, deperimento dei rami e conseguente morte della pianta.

Per fortuna, in tempi relativamente brevi, si sono trovate terapie d’urto e strategie (irrorazioni, potature, pulizia del terreno dalle erbe) in grado di limitare i danni, anche se è stato necessario sacrificare alcuni esemplari.